LA SPIRITUALITÀ DEI PADRI DEL DESERTO

pedrodiaz
00mercoledì 20 gennaio 2010 19:39

LA SPIRITUALITÀ DEI PADRI DEL DESERTO

L'INIZIO DEL MONACHESIMO

Il monachesimo è un movimento spirituale che sorge in alcune religioni che, seppure in forme diverse, viene accomunato dalla ricerca di una realtà che trascenda la vita presente, mediante l'ascesi, la preghiera e la contemplazione, vivendo in solitudine o in comunità più o meno ristrette. Grandi movimenti monastici li troviamo nell'induismo, nel buddhismo e nel cristianesimo.

Nel mondo cristiano, il monachesimo ebbe origine tra la fine del III e gli inizi del IV secolo, in un periodo particolare, in cui finiva il mondo cosiddetto antico, e l’impero romano era già diviso fra Occidente ed Oriente. In quell’epoca, la Chiesa possedeva un’organizzazione abbastanza solida, una gerarchia, un culto, una letteratura. Col monachesimo inizia una forma di vita consacrata interamente alla preghiera e alla penitenza, nell’isolamento dal mondo.

Alcuni cristiani, specialmente in Egitto e in Palestina, ma anche in Siria e in Mesopotamia, iniziarono a ritirarsi nel deserto con l’intento di voler riaffermare che "il regno di Dio non è di questo mondo" e rivendicare i più alti valori dello spirito, insieme ad una protesta (più o meno esplicita) contro i pericoli della mondanità. In realtà la sua origine risale ai primi convertiti che, nelle città, vivevano in modo radicale la propria fede alla ricerca di un'unione intima ed esclusiva con Cristo. Il loro ideale era quello di piacere soltanto a Dio e di anticipare in qualche modo sulla terra quella vita trascendente in cui Dio è "tutto in tutti".

L’etimologia del termine “monaco” (dal greco mónachos = unico, solo) ha una lunga storia che inizia con Platone. Ha avuto diverse interpretazioni: Gerolamo la intende con “solitario”; i padri orientali con “persona unificata”; Agostino con persona mirante all’“unanimità” coi fratelli; nel mondo siriaco pensando al monaco come imitatore di Cristo, “l’unigenito”.

La prima espressione di vita monastica è sicuramente quella eremitica o anacoretica. Gerolamo definisce gli anacoreti quanti abitano da soli nei deserti e prendono il loro nome dal fatto che si sono ritirati lontano dagli uomini. Il termine originario greco anachoréo (= ritirarsi) significa la fuga nel deserto dei debitori insolventi. Gli anacoreti si caratterizzano per il loro isolamento pressoché totale, l'astinenza sessuale, le penitenze, il lavoro manuale e l'assenza di un superiore. In mancanza di fonti attendibili, non è possibile sapere dettagli sull'istituzione di questo tipo di vita. Solo successivamente farà seguito una vita associata o cenobitica (dal greco koínos bíos = vita comune). Fu Pacomio (292-347) che, dopo un'esperienza personale di vita eremitica, diede forma al cenobitismo impostato sulla convivenza nella totale condivisione dei beni e nella preghiera comune, nell'osservanza della stessa regola, nel lavoro manuale e nell'obbedienza all'abate. La sua prima comunità venne fondata nel 323 a Tabennisi, nell'alto Egitto. La sua Regola, di 194 articoli, venne osservata in poco più di vent'anni da nove conventi maschili e due femminili.

Anche Antonio il Grande (250-355), dopo un periodo di anacoretismo divenne "padre" di alcuni piccoli monasteri che facevano capo a lui. Basilio di Cesarea (330-379), grazie alle esperienze monastiche che lo avevano preceduto, iniziò ad apportare modifiche e correzioni alle forme cenobitiche già in atto. Egli impostò la convivenza comunitario su un tipo di rapporto amicale, convinto che soltanto la vita  cenobitica garantisse l'esercizio della carità. La coabitazione costituisce infatti un campo di prova, un continuo esercizio , un'ininterrotta meditazione dei precetti del Signore. Basilio limitò il numero dei monaci che vivevano assieme e inserì i monasteri all'interno della realtà sociale ed ecclesiale, aggregando ospizi, scuole, orfanotrofi. Ridimensionò l'impegno dei lavori manuali, dando maggior rilievo alla preghiera e allo studio. Infine, Gerolamo (347-419) riuscì ad esportare nell'Occidente queste forme di vita ascetica sorte nel mondo orientale.


pedrodiaz
00mercoledì 20 gennaio 2010 19:40

I PADRI DEL DESERTO

Abbiamo visto che i Padri del deserto sono gli eremiti che, dalla fine del III secolo si ritirarono in luoghi isolati dell’alto e basso Egitto, a volte nel deserto (in greco, erémos) con forme di vita solitaria (anacoretismo), ma anche comune (cenobitismo). I secoli IV e V furono i periodi di massima vitalità, poi ci fu una progressiva decadenza fino al secolo VII, in cui la conquista musulmana lo interruppe.
I Padri del deserto vivevano in quasi totale povertà, in capanne o in grotte; vivevano grazie al lavoro delle proprie mani intrecciando foglie di palma per farne cesti od altri oggetti utili. A volte si facevano assumere come braccianti stagionali dagli agricoltori della valle del Nilo.
Fra i centro monastici più importanti troviamo Nitria (a sud di Alessandria) con gli eremi delle Celle e la solitudine di Scete, la Tebaide, dove Pacomio fondò nel 323 il primo cenobio.
I Padri del deserto non disponevano di regole scritte, per cui la loro vita fu libera quanto soggetta ad alcuni inevitabili squilibri.
Nei cenobi, i monaci si riunivano per la “sinassi”, ossia per la celebrazione comunitaria dell’Eucaristia o di altri uffici divini.
In periodi limitati, il monaco si ritirava in assoluta solitudine e in completo eremitismo. Si alternavano sovente diversi tipi di vita sebbene quella comunitaria prese il sopravvento.
pedrodiaz
00mercoledì 20 gennaio 2010 19:40

BREVE PROFILO SPIRITUALE

Il monachesimo degli inizi e quindi quello dei Padri del deserto ha un formidabile legame con la Sacra Scrittura. Questo appare evidente in alcune scelte precise, che richiamano il percorso compiuto dal popolo di Dio, soprattutto nell'Antico Testamento:
1)       il deserto, come luogo della prova, della tentazione, dell’abbandono in Dio, della lotta contro i demoni, della precarietà e transitorietà di ogni cosa (vedi più avanti);
2)      il richiamo ad Abramo e al suo abbandono della patria;
3)      i luoghi santi come il Sinai e il Carmelo;
4)      la verginità come risposta all’invito di Cristo a seguirlo in una vita sempre più perfetta (che ha più legame col Nuovo Testamento).

Il percorso spirituale compiuto dal monachesimo è stato in primo luogo quello di rettificare le posizioni dell’inizio che portarono ad alcune degenerazioni: scarso senso ecclesiale, disordini morali, errori teologici, forme di fanatismo. Il cammino spirituale era visto come un passaggio dalla tristezza alla gioia. Sulla base delle prime esperienze compiute dai Padri del deserto venne formandosi un patrimonio comune di dottrina e di idealità. Possiamo individuare alcune tappe dell’ideale ascetico, secondo i seguenti temi:

1)       pénthos: il tema della compunzione;
2)      apótaxis: la rinuncia;
3)      anachóresis: l’allontanamento nella solitudine;
4)      áskesis: l’ascesi;
5)      agôn: il combattimento spirituale;
6)      apátheia: il dominio di sé;
7)      diákrisis: il discernimento degli spiriti;
8)      parrhesía: il riacquisto dello spirito colloquiale con Dio;
9)      theopoíesis: la deificazione.

I temi spirituali non consentono tuttavia di derivare una teologia dei Padri del deserto. Secondo M. Vannini, nel testo citato, l'esperienza specifica dei Padri presuppone un certo pelagianesimo, almeno in quanto pone l'accento sulla necessità dell'impegno personale, e anche sulle autonome capacità dell'uomo e sul suo sforzo, per conseguire la salvezza. «Sta qui la durezza ascetica dei monaci egiziani, sempre alle prese con l'insuperabile distanza che separa l'uomo da Dio: una distanza che nessuna pratica ascetica, per quanto rigorosa fino all'impossibile, può riuscire a colmare. Senza volere minimamente pretendere di formulare un giudizio, è chiaro che si giustificano le polemiche di Agostino (e poi di Lutero) contro il pelagianesimo di tipo monastico se solo si guarda a quella sorta di bilancio del dare e dell'avere nei confronti di Dio che, a volte, appare negli apoftegmi dei Padri. Nei suoi aspetti migliori, però, il rigoroso ascetismo monastico è funzionale soltanto alla distruzione dell'uomo carnale, dell'uomo vecchio, dell'uomo esteriore e alla nascita dell'uomo spirituale, dell'uomo nuovo, dell'uomo interiore. In questo caso l'ascetismo non comporta nessuna pretesa di merito, nessun giudizio sugli altri che asceti non sono, ma sostiene il netto primato della carità, che è il vero segno di perfezione, e che è poi quel che distingue la virtù dei pagani dalla grazia dei cristiani. L'ascetismo realizza la distruzione totale dell'elemento psicologico determinato e fa emergere il vero io, l'universale dell'uomo, che perde il suo egoismo, la sua volontà, e diventa tutt'uno con la volontà divina, unito a Dio nello spirito» (cfr. alle pagg. 17-18).

pedrodiaz
00mercoledì 20 gennaio 2010 19:40

DIGRESSIONE SUL "DESERTO"

La parola deserto evoca risonanze nelle varie culture etniche, nella filosofia, nelle religioni e nella spiritualità. Seguiamo liberamente quanto trattato in modo più ampio dal Nuovo Dizionario di Spiritualità (vedi citazione in Bibliografia), alla voce "deserto". A partire dalla poesia araba dei beduini pre-islamici, si canta della lotta fra il deserto che rifiuta l'uomo e questi che cerca di conquistarlo comunque. «L'uomo prende veramente coscienza del suo nulla e anche del nulla assoluto d'ogni cosa nella fuga inarrestabile del tempo. Non c'è dubbio che il deserto lamini l'uomo, come fa con tutto il resto; ma appare anche indubbia la rivincita dell'uomo, la cui lucidità mette a nudo il deserto nella sua realtà essenziale, la quale non è che il nulla... nella sua individualità, è la pietra, ossia il vuoto assoluto e irrazionale» (A. Miquel).

Con argomentazioni di tipo etnologico, al deserto è attribuita la scoperta dell'unicità di Dio. L'uomo, divenendo pastore nomade, sviluppa progressivamente, con l'aiuto del deserto, l'idea del Dio unico. Questo sembra accertato sia nel pastore orientale antico che nella civiltà dell'America dopo la scoperta di Colombo. Gli stessi ebrei dovettero essere educati nel deserto al fine di pervenire all'idea del solo ed unico Dio. L'amore del deserto si trova in India, in Cina, in Asia centrale, in Africa e in America attraverso l'esperienza, simile ovunque, degli anacoreti. Non sempre si tratta del deserto come luogo geografico, con le sue rocce, le sabbie aride, le distese brulle, dove tutto muore, che impone la riflessione e la sensazione della nullità dell'uomo, sempre teso alla ricerca di oasi di verde dove la vita appaia di nuovo. Esistono infatti altri luoghi che assicurano la solitudine, il ritiro dalla mondanità, il silenzio, l'ascolto. 

L'attrazione del deserto venne sentita in modo originale dai mistici cristiani, non solo in quanto si sentivano stranieri e pellegrini in questo mondo, ove non hanno una città stabile, permanente (cfr. 1 Pt 2,11 ed Eb 13,14), ma anche per disporsi alla città futura, mediante l'ascesi penitenziale del deserto. Antonio il Grande è la figura emblema di questa scelta: la solitudine, il nascondimento, il deserto erano il luogo dove si scopriva meglio il conflitto delle passioni, delle forze oscure ed occulte, operanti all'interno di ogni uomo. Si credeva infatti che fosse il diavolo ad operare tale conflitto, aggirandosi da padrone nella solitudine del deserto. Pertanto, per le anime più decise e coraggiose il deserto diventava la palestra per una lotta più impegnativa e spesso risolutiva contro il nemico dello spirito. 

Antonio passa attraverso una prova di oscurità nel corso della quale ha l'impressione di essere abbandonato da Dio al potere diabolico: tuttavia egli persevera, pur nella fede più nuda. E solo al termine della prova, una visione luminosa del cielo lo consolo. È allora che domanda: dov'eri? perché non sei apparso fin dal principio per far cessare le mie sofferenze? Una voce risponde: io ero là, ma attendevo per vederti combattere (Atanasio, Vita di Antonio).

Riassumendo, possiamo intendere il deserto come un luogo spirituale secondo le prospettive tracciate da S. Fiores, nel Dizionario citato:

  1. DINAMICA DEL PROVVISORIO: il deserto, secondo quando scaturisce dall'insegnamento biblico, come luogo geografico e come atteggiamento di separazione dal resto degli uomini, non può essere considerato una condizione permanente. Per il popolo eletto, il deserto ha rappresentato un tempo intermedio fra la schiavitù e la terra promessa. Per Abramo, Mosè, Elia e per Gesù stesso il soggiorno nel deserto fa parte di un itinerario spirituale come momento forte di maturazione delle proprie scelte e di incontro privilegiato con Dio. All'interno si inserisce una dinamica che dal passato si proietta al futuro, come costruire il termine verso cui si tende.

  2. EDUCAZIONE ALL'ASSOLUTO: il deserto è più di un luogo di ritiro - afferma P. Voillaume -, perché l'uomo non è in grado di sostenersi da solo, di fronte al deserto. Si tratta dunque di un tentativo di avanzare nudi, deboli, privi di ogni appoggio umano, nel digiuno del cibo materiale e spirituale, verso l'incontro con Dio. Il deserto presuppone una rottura con il proprio ambiente: si lascia il mondo normale delle relazioni sociali e delle comodità per trovarsi soli in un  ambiente elementare, dove si risvegliano i bisogni essenziali, che prendono il posto di quelli secondari o fittizi. Come Israele, il cristiano è chiamato a dimostrare la sua fede nell'unico Signore, a dipendere solo da lui, a porre soltanto in lui la propria sicurezza. Deve scegliere l'Assoluto, relativizzando gli altri valori ed abbandonando gli idoli via via costruiti. 

 

 

pedrodiaz
00mercoledì 20 gennaio 2010 19:41

I DETTI DEI PADRI DEL DESERTO

 

INTRODUZIONE

La raccolta dei Detti dei Padri del deserto appartiene al genere letterario detto apoftegmatico (in greco, apophtégmata = detti), noto alla cultura antica e in particolare a quella ellenistica. La forma letteraria prevede normalmente un breve esempio di vita, un dialogo essenziale fra discepolo e maestro, una risposta concisa che riassume o condensa un profondo insegnamento morale e religioso. Era normale che anonimi copisti raccogliessero e tramandassero gli episodi e i detti più importanti e famosi dei Padri, che prima erano stati tramandati solo oralmente.
Si formò nel tempo una raccolta di materiale che successivamente venne rielaborato e sistemato in diverse lingue (greco, siriaco, latino, copto, armeno). La più importante raccolta è quella alfabetica (Alphabeticon), tradotta in latino (dal greco) nel VI secolo. Si tratta della raccolta più antica, più autorevole e diffusa.
Nella raccolta dei Detti troviamo come un elemento basilare della preghiera, della vita e della dottrina dei padri del deserto, sia costituito dalla memorizzazione di molti brani della Scrittura.
I richiami biblici fioriscono nel discorso con una certa frequenza e spontaneità parimenti ad una libertà grande nel distaccarsi

dal loro contesto originario. Alla base rimane una grande fede nella autorità della Bibbia, come nella sua sacra mentalità, in una presenza reale e privilegiata del Signore in essa e della particolare efficacia della Parola come strumento o canale di grazia. Questa fede nella realtà trascendente della Parola e nella sua forza soprannaturale, si esprime in due atteggiamenti: l'accostare la Bibbia per riceverne indicazioni vitali, forza di conversione, conoscenza della volontà di Dio; secondo, la reticenza a scrutarne i misteri, a pretendere di interpretarla, a parlarne. Ne consegue una grande cautela nel modo di utilizzare le Scritture e nei consigli sul suo uso che vengono impartiti dagli anziani. Spesso manifestano esitazione e reticenza nel parlarne, consigliano molta prudenza nell'usarla e non sempre rispondono se interrogati su di essa.

pedrodiaz
00mercoledì 20 gennaio 2010 19:41

PICCOLA ANTOLOGIA COMMENTATA

Questa che viene presentata non è un'antologia ampia dei Detti dei Padri del deserto, ma un semplice "assaggio" che permetterà di approfondire l'interesse attraverso una lettura più completa grazie alle varie antologie pubblicate. In particolare, consiglio quella edita da Città Nuova, secondo il riferimento dato in Bibliografia, che è ricca di materiale. Il breve commento personale che ho affiancato è solo un'interpretazione, che ovviamente non impedisce di cercarne e trovarne altre. Non vuole pertanto essere un commento esegetico, quanto piuttosto una riflessione spirituale del tutto personale e, in questo senso, limitata.

  

pedrodiaz
00mercoledì 20 gennaio 2010 19:41

1. CURA DELLE ANIME

 

«In un cenobio, un fratello fu falsamente accusato di impurità: e si recò dal padre Antonio. Vennero allora i fratelli dal cenobio, per curarlo e portarlo via. Si misero ad accusarlo: «Tu hai fatto questo». Ed egli a difendersi: «Non ho fatto nulla del genere». Accadde per fortuna che si trovasse colà il padre Pafnuzio Kefala; egli disse questa parabola: «Sulla riva del fiume vidi un uomo immerso nella melma fino al ginocchio; e vennero alcuni per dargli una mano, ma lo fecero affondare fino al collo». E il padre Antonio, riferendosi al padre Pafnuzio, dice loro: «Ecco un vero uomo, capace di curare e di salvare le anime». Presi da compunzione per la parola degli anziani, essi si inchinarono davanti al fratello; poi, esortati i padri, lo riportarono al cenobio.» [Antonio il grande, n. 29].

 

Nella cura delle anime occorre molto tatto e cautela, attenzione e tenerezza. Spesso il tentativo di redimere una persona ha l’esito di affossarla sempre di più, a volte anche senza che sia presente il motivo scatenante (ossia senza il peccato, ma soltanto l’accusa, che si tende a reiterare). Questo atteggiamento di cura e attenzione verso i peccatori o i più deboli appare del tutto smarrito ai tempi moderni e nella direzione spirituale di molti, che prediligono circondarsi più di "giusti"  (o presunti tali) che non di "peccatori", più bisognosi, stravolgendo in tal modo il messaggio di salvezza portato da Cristo. 

 

pedrodiaz
00mercoledì 20 gennaio 2010 19:42

2. RICOMINCIARE SEMPRE

 

«Un giorno i demoni assalirono Arsenio nella sua cella per tormentarlo; giunsero frattanto coloro che lo servivano e, stando fuori dalla cella, lo udirono gridare a Dio: "O Dio, non mi abbandonare; non ho fatto niente di buono ai tuoi occhi, ma nella tua bontà concedimi di cominciare".» [Arsenio, n. 3].

 

Ogni momento è buono per dire la prima volta (o ridire, se fosse necessario) il nostro “sì”, riaffermare il nostro impegno a cominciare l’opera di Dio o ricominciare nuovamente, secondo l’aiuto della sua misericordia. Sempre ricominciare, sempre cominciare di nuovo a fare qualcosa di buono nella nostra vita. Mai arrendersi alle forze del male, ai tormenti dell’anima, alle difficoltà e alle inquietudini, ma sempre affidarsi a Dio, implorandolo, nella sua misericordia, di poter cominciare di nuovo una storia con Lui. E Lui non ci abbandonerà certamente.

 

pedrodiaz
00mercoledì 20 gennaio 2010 19:42

3. PARLARE COL CUORE

 

«Il Padre Poemen disse: "Insegna alla tua bocca a dire ciò che il tuo cuore racchiude".» [Poemen, n. 63].

 

La ricerca spirituale deve stabilire delle tappe certe. Fra queste c'è la meravigliosa sintonia fra le profondità del cuore e quanto affermiamo con la bocca. La parola non è mai vuota, questo ci insegnano i Padri del deserto, e dunque lasciamo che sia il cuore a parlare sempre attraverso parole adeguate, che vengano dalle sue profondità. Dare così un senso di verità alle parole che altrimenti risuonerebbero vuote.

pedrodiaz
00mercoledì 20 gennaio 2010 19:42

4. IL SENSO DELLA SOLITUDINE

 

«Un fratello chiese al padre Matoes: "Che devo fare? La mia lingua mi è causa di afflizione: quando giungo in mezzo agli altri, non riesco a trattenerla, ma in ogni loro azione trovo da giudicarli e accusarli. Che devo dunque fare?" L'anziano gli rispose: "Fuggi nella solitudine. È debolezza infatti. Chi vive con dei fratelli, non deve essere un cubo, ma una sfera, per poter rotolare verso tutti". E disse: "Non per virtù vivo in solitudine, ma per debolezza; sono forti infatti quelli che vanno in mezzo agli uomini".» [Matoes, n. 13].

Il vero forte non è il solitario, ma colui che vive in mezzo agli uomini. Questo è quanto ci viene confermato da padre Matoes. Eppure, oggi, sembra vero il contrario. Viviamo facilmente nel mondo e difficilmente nella solitudine, ma non siamo tutti forti, anzi. Siamo diventati sempre più "cubi" che rotolano, con i lati un po' smussati dai continui conflitti, ma non saremo così mai "sfere" in grado di dirigerci con verità e amore verso tutti. L'invito è quello di accettare i momenti di debolezza, recuperando il senso della vera solitudine, come allenamento all'apertura totale ed incondizionata agli altri.

 

pedrodiaz
00mercoledì 20 gennaio 2010 19:43

5. LA FATICA DI AVVICINARSI A DIO

 

«La madre Sincletica disse: "Per coloro che si avvicinano a Dio all'inizio vi è lotta e grande fatica, ma poi gioia indicibile. Come quelli che vogliono accendere il fuoco: prima sono disturbati dal fumo e lacrimano, quindi raggiungono ciò che cercano. Perché, dice, il nostro Dio è fuoco che consuma (Eb 12,29). Così anche noi dobbiamo accendere il fuoco divino con lacrime e stenti".» [Sincletica, n. 1].

 

La lotta contraddistingue ogni percorso spirituale, soprattutto agli inizi: "sforzatevi di entrare per la porta stretta" (cfr. Lc 13,24 o Mt 7,13) è l'invito che Gesù stesso rivolge per percorrere la strada che porta alla salvezza. E se è vero, come affermato all'inizio di questa pagina, che il termine "fatica" è quello che meglio definisce il monaco, non è tuttavia un'esclusiva del monaco, ma di ogni persona che prende sul serio la propria vita e vuole arrivare a "bruciare" insieme con Dio. 

pedrodiaz
00mercoledì 20 gennaio 2010 19:43

6. LA SOTTIGLIEZZA DEI PENSIERI

 

«Il padre Poemen disse: "Molti dei nostri padri divennero valorosi nell'ascesi. Ma, quanto alla sottigliezza dei pensieri, che si raggiunge mediante la preghiera, soltanto uno o due.» [Poemen, n. 106].

 

L'ascesi non permette, per quanto estrema e dura, di giungere inevitabilmente a Dio. Lo sforzo dell'uomo, incamminato in questa via, rimarrà alla fine deluso. Questo non significa affatto che non abbia alcun significato o che sia dannosa, tutt'altro: l'ascesi permette di comprendere meglio il senso delle cose e della vita, attraverso la rinuncia e il distacco. E sicuramente la strada verso la salvezza passa anche attraverso queste cose: "chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà" (cfr. Lc 17,33), ossia chi vorrà disperatamente essere se stesso, non sarà mai il se stesso vero (cfr. Kierkegaard, La malattia mortale). Ma la vera sottigliezza dei pensieri, ossia essere un solo pensiero con Dio, si ottiene attraverso la preghiera, che è dialogo ininterrotto e costante con Lui, fatto di parole e di silenzi, di possesso e di rinuncia. E pochi, anche fra i padri del deserto, riescono ad ottenere simili pensieri, penetranti, acuti. 

pedrodiaz
00mercoledì 20 gennaio 2010 19:43

7. IL VERO MAESTRO

 

«Il padre Poemen disse: "Un uomo che insegna, e non fa ciò che insegna, assomiglia a una sorgente; abbevera e lava tutti, ma non può purificare se stessa".» [Poemen, n. 25].

 

Il vero maestro non è colui che insegna senza realizzare quanto crede e trasmette. Per primo deve mettere in pratica le sue teorie. Per primo, deve vivere quanto crede. Ma questa difficoltà, di tradurre personalmente quanto creduto e insegnato, è una situazione frequente per la maggior parte delle persone. "Sapere di avere bisogno è la pienezza dell'aver bisogno, non la soddisfazione" (G.Romano Bacchin, Su l'autentico nel filosofare), così come sapere alcune verità e sapere di poterle insegnare non è arrivare a possederle o viverle pienamente. Non c'è un giudizio di valore riguardo al fatto che un uomo che insegna non riesca a vivere ciò di cui è consapevole, quanto una sorta di connotazione negativa per se stesso: il maestro è comunque una sorgente che lava e dà da bere a molti, sebbene non riesca, se non mette in pratica quanto afferma, a purificare se stesso. In questo sta solo una grande tragicità personale, che è quella di essere di aiuto agli altri senza sapere aiutare se stessi, su cui i padri invitano a riflettere, onde superarla.

pedrodiaz
00mercoledì 20 gennaio 2010 19:44

8. PARLARE E TACERE

 

«Un fratello chiese al padre Poemen: "È meglio parlare o tacere?" L'anziano disse: "Chi parla per amore di Dio fa bene, e chi tace per amore di Dio fa ugualmente bene".» [Poemen, n. 147].

 

Spesso ci domandiamo cosa sia meglio fare: parlare o tacere, agire o astenersi, chiedere o rimanere in silenzio, aiutare o meno. In realtà, non conta molto quello che uno fa, o meglio non conta l'opera in sé e per sé, quanto l'intenzione che la anima. Per questo, sia che si parli o che si taccia, sia che si agisca o che si rimanga inerti, quello che ci deve preoccupare è se ogni nostra azione provenga dall'amore per Dio. Solo l'amore sa come agire (nel silenzio come nella parola, nell'azione come nella quiete) e solo chi ama veramente può fare ciò che vuole (Agostino), senza preoccuparsi se sia una cosa giusta o sbagliata (Eckhart). L'uomo deve sempre essere padrone e non schiavo di ciò che realizza, e questo può compiersi soltanto se si affida all'amore di Dio, che fa buone tutte le sue opere.

 

pedrodiaz
00mercoledì 20 gennaio 2010 19:44

9. VIVERE PRIMA DI PARLARE

 

«Un fratello venne dal padre Teodoro e cominciò a parlare e a trattare cose di cui non aveva ancora fatto esperienza. "Non hai ancora trovato la nave - gli dice l'anziano -, non hai ancora caricato il tuo bagaglio, e sei già arrivato in quella città prima di essere partito? Compi prima l'opera e poi giungerai a ciò di cui ora parli".» [Teodoro di Ferme, n. 9].

 

Si tratta di un male comune: quello di parlare prima di realizzare qualcosa o di parlare di qualcosa e di trattarne prima ancora di conoscerla e di averla vissuta. I Padri invitano a fare un'esperienza che coinvolga la persona intera, un'esperienza di vita che sia il più possibile "assoluta". Inoltre, invitano a misurare le parole sempre in ogni istante e non dire oltre il normale dire e l'essenzialità di quanto necessario. Non esagerare le proprie esperienze, non farsi maestri di vita (soprattutto spirituale) prima di aver fatto un'esperienza vera e profonda. E anche allora avere sempre una modestia nel presentarsi agli altri. I Padri non parlano né danno consigli, se non dopo essere stati interrogati. La realtà quotidiana è ben altra cosa: si vive in un mondo che cresce precocemente le nostre vite, che coltiva in modo frenetico le nostre ansie di giungere (presto) ad una meta per poi subito ripartire, senza limiti né soddisfazione. In verità non si giunge a nulla, perché non si vive più in profondità. Si vive in un'altra dimensione, quella dell'estensione, della larghezza e la direzione non è quella che si avvicina al fondo dell'anima, ma quella che se ne allontana. O meglio, la nostra anima non è affatto scrutata. Anche la psicologia moderna è una semplice cultura dell'esteriore, del comportamento che appare o di meccanismi, sempre esteriori, fatti di osmosi, di scambi cellulari, di sostanze che non danno ragione alle nostre istanze più vere e profonde.

pedrodiaz
00mercoledì 20 gennaio 2010 19:45

10. LA TENEREZZA DI DIO

 

«Alcuni anziani si recarono dal padre Poemen e gli chiesero: "Se vediamo dei fratelli che sonnecchiano durante la liturgia, vuoi che li scuotiamo, perché rimangano desti durante la veglia?" Ma egli disse loro: "Veramente, se io vedo un fratello che sonnecchia, metto la sua testa sulle mie ginocchia e lo lascio riposare".» [Poemen, n. 92].

 

La cura straordinaria e la grande tenerezza dei Padri si rivela in questo detto di Poemen. Fa pensare che, al di là di ogni regola scritta o comunque osservata, tutto debba passare (= essere filtrato) da un semplice buon senso, che è oltre ogni regola e norma e che non si insegna. Il buon senso che è tenerezza, appunto, gentilezza nei modi e nei pensieri, accortezza, cura, attenzione all'altro come "essere altro", con una sua dignità che va oltre le leggi e le norme stabilite. Così dovrebbe essere intesa ogni teologia morale che si trova davanti non un fatto, ma una persona che ha fatto qualcosa. Una persona che ha necessità di quella tenerezza e di quella misericordia, che solo Dio sa veramente donare: che è un amore che supera la giustizia. In ogni istante, mi piace affidarmi a questa tenerezza che è di Dio, più spesso che degli uomini, alla sua misericordia che accoglie la mia anima sulle sue ginocchia e la lascia riposare.

Sito web: www.mistica.info
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