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Rassegna libraria Voci dalla Shoah

Ultimo Aggiornamento: 22/05/2011 20:38
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22/05/2011 20:26

Walter Laqueur
Il terribile segreto
Giuntina, Firenze, 1983



Il testo studia la conoscenza che si aveva all'esterno dei fatti relativi allo sterminio, giungendo alla conclusione che almeno le grandi linee erano conosciute dalle alte sfere (ed anche da molte persone in contatto con il fronte di guerra), sia in Germania, sia fra gli alleati, sia in Vaticano.
Così conclude le sue considerazioni su ciò che pensavano gli ebrei nei ghetti polacchi:



Se le notizie sulla soluzione finale fossero state credute esse avrebbero raggiunto ogni angolo della Polonia in pochi giorni. Ma non furono credute, e quando le “deportazioni” dei ghetti polacchi cominciarono nel marzo 1942 si pensava ancora che gli ebrei sarebbero stati trasportati in luoghi più ad est... Dopo il luglio 1942 (le deportazioni da Varsavia) è sempre più difficile capire che ci fosse ancora una grande confusione sui disegni nazisti nei confronti degli ebrei polacchi e che le voci non fossero riconosciute per ciò che erano: certezze. Ogni analisi razionale della situazione avrebbe dimostrato che il fine dei nazisti era lo sterminio di tutti gli ebrei. Ma le pressioni psicologiche ostacolavano l'analisi razionale e creavano un'atmosfera in cui l'illusione sembrava offrire l'unico antidoto alla più completa disperazione.



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Per quel che riguarda la Germania così scrive:



Milioni di tedeschi sapevano, alla fine del 1942, che gli ebrei erano scomparsi. Voci sul loro destino raggiunsero la Germania soprattutto attraverso ufficiali e soldati di ritorno dal fronte orientale, ma anche attraverso altri canali. C'erano chiare indicazioni nei discorsi dei capi nazisti che era accaduto qualcosa di più drastico di un semplice reinsediamento. Soltanto pochissime persone sapevano esattamente in che modo gli ebrei erano stati uccisi. E' in realtà assai probabile che molti tedeschi, mentre pensavano che gli ebrei non fossero più vivi, non credessero necessariamente che fossero morti. Tale convinzione, inutile dirlo, è logicamente incoerente, ma moltissime incoerenze logiche vengono accettate in tempo di guerra. Pochissime persone erano interessate al destino degli ebrei. La maggior parte doveva affrontare molti problemi più importanti. Era un argomento spiacevole, pensarci non serviva a niente, e le discussioni sul destino degli ebrei venivano lasciate cadere. Per tutta la durata della guerra questo argomento fu evitato, cancellato.


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Infine queste le riflessioni sugli Alleati:



A Londra e a Washington i fatti sulla soluzione finale furono conosciuti piuttosto presto e raggiunsero i capi dei servizi segreti, i ministri degli affari esteri e della difesa. Ma i fatti non furono considerati di grande interesse e importanza o almeno alcuni funzionari non ci credettero o li giudicarono esagerati. Non ci fu nessun tentativo deliberato per interrompere il flusso d'informazioni sulle uccisioni in massa (tranne che per un certo periodo da parte di funzionari del dipartimento di stato) ma soprattutto mancanza d'interesse e incredulità. Questa incredulità può essere spiegata sulla base della mancanza di conoscenza da parte degli angloamericani degli affari europei in generale e del nazismo in particolare. Sebbene fosse generalmente accettato che i nazisti si comportassero in maniera meno civile dell'esercito tedesco nel 1914-18, l'idea di un genocidio sembrava tuttavia incredibile. Né la Luftwaffe, né la marina tedesca, né l'Afrika Korps avevano commesso simili atti di atrocità, e questi furono gli unici reparti delle forze armate tedesche che i soldati alleati incontrarono prima del 1944. La Gestapo era conosciuta attraverso non molto credibili film di serie B. Il fanatismo barbaro era inaccettabile per persone che pensavano pragmaticamente, che credevano che i lavori forzati piuttosto che l'annientamento fossero il destino degli ebrei in Europa. La maligna natura del nazismo era al di là della loro comprensione.
Ma se anche la realtà della soluzione finale fosse stata accettata a Londra e a Washington, la questione avrebbe comunque figurato molto in basso nella scala delle priorità alleate. Il 1942 era un anno critico nel corso della guerra, strateghi e burocrati non dovevano essere distratti dalla ricerca per la vittoria da considerazioni non direttamente connesse con lo sforzo bellico. Perciò troppa pubblicità sullo sterminio sembrava indesiderabile, perché era destinata a generare richieste di aiuto per gli ebrei, e ciò era considerato dannoso allo sforzo bellico. Anche in anni successivi, quando la vittoria era già assicurata ci fu poca propensione ad aiutare gli ebrei.

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Elie Wiesel
Credere o non credere
Giuntina, Firenze, 1993



Il libro raccoglie vari articoli e interventi di Elie Wiesel. Voci nella notte è la prefazione scritta per presentare il volume Des voix dans la nuit, curato da Ber Mark, per l'editore Plon di Parigi, che raccoglie le voci di Zalman Gradowski, Zalman Lewental e Leib Langfus, ebrei del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau, che sotterrarono i loro scritti vicino ai crematori, prima di essere uccisi.



Allora io ignoravo, oggi lo so: l'inferno non è lo stesso dappertutto. Esistono mille modi di subire il terrore e di attendere la morte. Bruciare cadaveri è fra i più crudeli. Il Sonderkommando bruciava cadaveri. Gli assassini tedeschi uccidevano e i becchini prendevano le vittime e le gettavano nei forni. Poi, dopo qualche settimana, gli assassini prendevano i becchini e li sostituivano con dei nuovi arrivati. E il cielo lassù diventava cenere.
E in basso, in campo, noi ci domandavamo: come può un essere umano fare questo lavoro senza degradarsi, senza provare odio e disgusto verso se stesso? Nessuno poteva risponderci per la semplice ragione che un abisso separava i becchini da noialtri detenuti. Noi non potevamo capirli. Io continuo a non capirli, eppure ho letto da allora tanti diari e racconti che alcuni di loro ci hanno lasciato.
Ne ho letti degli estratti in jiddish quando furono scoperti negli anni sessanta; li rileggo adesso in traduzione francese. Finita la lettura, mi sento incapace di accostarmi a un'altra opera o di fare un'altra cosa. Mi chiudo in me stesso e ascolto i cronisti del Sonderkommando: Zalman Gradowski, Zalman Lewental e Leib Langfus. Ed è come se li vedessi davanti a me: ciascuno ha il suo stile, la sua lingua, la sua collera. Ciò che hanno in comune è un bisogno irresistibile di deporre per la Storia e anche, a volte, di giustificarsi davanti ad essa. “... tuttavia in campo ci siamo profondamente intesi sulla natura del nostro destino e meglio ancora sul nostro dovere - dice Zalman Lewental. - Ci siamo, è vero, consultati a lungo per decidere se dovevamo ancora continuare questa vita... Abbiamo deciso che ognuno di noi non doveva restare passivo e che un fine doveva essere stabilito”. Il fine? Preparare l'insurrezione, scrivere fatti e impressioni, nomi e cifre di comunità annientate; in breve: assumersi la doppia condizione di vittime e testimoni.

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22/05/2011 20:27

Zalman Gradowski supplica, in un frammento, perché ogni testo sia ritrovato:



Cercatore, cerca dappertutto, in ogni briciola di terra. Documenti, i miei e quelli di altre persone, vi sono sepolti, documenti che gettano una luce cruda su tutto quello che è accaduto qui...



Nel dovere di raccontare sembra assumere un senso anche la vita di questi uomini.



Conoscono l'angoscia e il dubbio, la nostalgia e il rimorso, conoscono perfino la speranza: per questo si armano, per questo scrivono. La loro ossessione: resistere al carnefice, combattendo l'oblio. “Bisogna che gli uomini sappiano e se ne ricordino; bisogna”. La crudeltà sistematica e omicida degli assassini, l'agonia lenta e lucida delle vittime, la generosità dei bambini, il coraggio delle ragazze nelle camere a gas: bisogna che le generazioni future sappiano. “Ricordatevi che siamo andati alla morte con molta fierezza e in perfetta coscienza” disse una giovane ebrea polacca ai membri del Sonderkommando: Leib Langfus l'ha udita. Così come ha udito gli ebrei e i polacchi cantare i loro inni nazionali.

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22/05/2011 20:27

Il tempo non ha conservato intatti questi documenti.



Nessun documento contiene altrettante domande; nessun volume è stato composto con maggior rigore o lucidità. Le cancellature, gli stessi spazi bianchi hanno la loro importanza; e il loro peso simbolico. Dal momento che i manoscritti sono danneggiati - dall'umidità, dalla terra e dal tempo - non sapremo mai tutto ciò che uno Zalman Lewental voleva comunicarci. Di Auschwitz non si saprà mai tutto. Certe esperienze non si comunicano, e certamente non con la parola. Solo chi ha vissuto Birkenau si ricorderà di Birkenau. Chi non ha visto i suoi amici andarsene per diventare becchini o fumo non capirà mai perché la vista di una semplice ciminiera ci fa respirare faticosamente.
Questi racconti li leggerete con affanno, e non vi lasceranno più.



In un altro piccolo saggio, dal titolo I giusti fra noi, Wiesel analizza i tentativi di soccorrere gli ebrei. L'espressione i giusti fra le nazioni è stata coniata dal memoriale Yad Vashem di Gerusalemme per indicare appunto tutte le persone accorse in aiuto del popolo ebraico.



Ci furono anche sforzi collettivi. Il caso della Danimarca resterà per sempre l'esempio più glorioso. Come pure quello della Bulgaria. Il primo è ben conosciuto. Il re di Danimarca aveva stupefatto gli occupanti annunciando la sua intenzione di portare la stella gialla in segno di solidarietà con i suoi sudditi ebrei. Nel 1943, avvisata da un ufficiale tedesco, la Resistenza danese, in un mirabile gesto di eroismo collettivo, riuscì a salvare tutti gli ebrei del paese inviandoli in Svezia. E quando rientrarono, dopo la Liberazione, trovarono le loro case in perfetto ordine e fiori sulla tavola.
Quanto al popolo bulgaro, esso protesse la popolazione ebraica. Ispirato da un intellettuale coraggioso, Dimo Kazasov, il popolo bulgaro, ad eccezione di qualche collaborazionista, fece fallire i piani tedeschi di deportazione degli ebrei verso i campi della morte.

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22/05/2011 20:27

Per l'Italia, Wiesel ricorda i fatti di Assisi:



Come spiegare il coraggio di un frate francescano, padre Rufino Niccacci, di Assisi, che in piena Italia occupata, riuscì a nascondere trecento ebrei fino alla fine della guerra? Come comprendere l'abnegazione di qualche individuo, quando la società che lo circondava era dominata e avvelenata dal terrore e dall'odio?



Anton Schmidt, caporale austriaco pagò con la vita l'aiuto portato agli ebrei del ghetto di Vilna.



“Ho visto - scrisse Anton Schmidt nella sua ultima lettera alla famiglia - ho visto come duecento, trecento ebrei sono stati fucilati; ho visto come dei bambini sono stati massacrati... Aiutando gli ebrei, ho agito semplicemente come un essere umano che non voleva far male a nessuno”.



Nonostante questo Wiesel è costretto a concludere in maniera desolante:

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22/05/2011 20:28

Yad Vashem dichiara di possedere circa quattromilacinquecento nomi di “Giusti” che hanno cercato di salvare gli ebrei durante l'Occupazione. Sono molti? Per così tanti paesi? Per sei milioni di vittime?
Siamo prudenti. Non esageriamo. Se questi Giusti giustificano la nostra fede nell'umanità, essi dovrebbero, su un altro piano, giustificare ugualmente la nostra diffidenza nei confronti della società. Per un Oscar Schindler, quanti collaborazionisti? Per un Raoul Wallenberg, quanti spettatori indifferenti? Per un Anton Schmidt, quanti volontari nelle divisioni delle SS? Per un'anima generosa e caritatevole, quanti szmalcownik, quante abiette canaglie che percorrevano le strade delle città occupate alla ricerca di ebrei muniti di documenti ariani?
Qualche scintilla basta ad illuminare le tenebre? Qualche uomo, qualche donna coraggiosa è sufficiente a riabilitare un universo omicida?
Certo, il mistero del bene vale quanto quello del male; ma si tratta dello stesso mistero?



Nel 1990 il numero dei Giusti riconosciuti in Israele era salito a 8611.

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22/05/2011 20:28

Elie Wiesel
L'ebreo errante
Giuntina, Firenze, 1994



Testo che raccoglie articoli di provenienza varia, scritti da Wiesel. Ne La nostra colpa comune viene affrontato il problema delle responsabilità dell'Olocausto:



Eppure, senza l'aiuto e la tacita approvazione degli ucraini, degli slovacchi, dei polacchi, degli ungheresi, i tedeschi non avrebbero mai potuto risolvere la “questione ebraica” così completamente e così rapidamente. Gli slovacchi pagavano una certa cifra per ogni ebreo che i tedeschi deportavano dal loro paese; gli ungheresi esercitavano pressioni su Eichmann, che non mancava certo di zelo, perché accelerasse i trasporti; gli ucraini e i lettoni superarono i tedeschi in crudeltà. Quanto ai polacchi... Non è un caso che i campi peggiori siano stati costruiti in Polonia e non altrove.
Dovunque la popolazione locale si opponesse alla deportazione dei propri concittadini ebrei - è un fatto stabilito, indiscutibile - il “rendimento” era basso, insoddisfacente. Lo stesso Eichmann lo ha riconosciuto e sottolineato nelle confessioni che ha dettato a Buenos Aires al giornalista olandese Wilhelm Sassen. In Danimarca, quasi tutta la popolazione ebraica venne salvata. In Francia, in Belgio, in Olanda, paesi in cui le misure antiebraiche erano male accolte, i rappresentanti di Eichmann non potevano assolvere il loro compito se non in modo assai mediocre, provocando un'indignata amarezza a Berlino. Ma là dove la popolazione stessa aspirava a diventare judenreim, i carri di bestiame con il loro carico umano correvano senza ostacoli verso la notte. Queste verità non hanno trovato a Gerusalemme l'eco che meritavano.
Ugualmente, l'accusa non ha insistito abbastanza sull'atteggiamento del mondo libero, che, colpito da una sorprendente passività, guardava e lasciava fare. Se uomini come Roosevelt, Churchill o il papa avessero fatto sentire la loro voce, la cifra delle vittime avrebbe raggiunto i sei milioni?

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22/05/2011 20:28

Non sussiste più dubbio sulla effettiva conoscenza almeno di massima della persecuzione, in Occidente.



A Washington e a Londra, e anche a Gerusalemme, erano al corrente di ciò che stava accadendo fin dal 1942. Hitler e Goebbels non lo ignoravano. Si aspettavano una valanga di proteste e di minacce. Poi capirono che l'Occidente lasciava loro ogni libertà d'azione.
Nella corrispondenza fra il Professor Chaim Weizmann e il Foreign Office, presentata in tribunale a Gerusalemme, c'è una richiesta commovente nella sua semplicità: il leader sionista implorava il governo di Sua Maestà di dare ordine alla RAF di bombardare le linee ferroviarie che conducevano ad Auschwitz. La risposta fu negativa. Si sa che una simile richiesta venne rivolta da un leader ebreo americano al Presidente Roosvelt. Ma anche Roosvelt non dette alcun seguito alla cosa.
E' comunque curioso - per non usare un altro termine - che il mondo libero non si sia indignato che dopo, quando era troppo tardi, quando non c'erano più ebrei da salvare.



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22/05/2011 20:28

Il saggio è scritto a commento del processo Eichmann a Gerusalemme.



Infine, per non togliere nulla alla verità storica, il procuratore generale avrebbe dovuto spingere fino in fondo la sua requisitoria e rivelare un fatto che, per amaro e triste che possa essere, non è meno vero: gli ebrei stessi non fecero tutto ciò che avrebbero dovuto fare: dovevano, potevano fare molto di più. L'ebraismo americano non si è quasi mosso, non ha usato la sua influenza politica e finanziaria, non ha smosso cielo e terra come avrebbe dovuto fare. Si, lo so: aveva le sue ragioni, le sue giustificazioni, ma non sono valide. Nulla giustifica né spiega la passività quando si tratta di fermare l'assassinio quotidiano di migliaia di persone. Quante manifestazioni hanno avuto luogo al Madison Square Garden? Quante dimostrazioni davanti alla Casa Bianca? Ben Hecht ne parla, e con quale amarezza, nel suo Child of the Century. A leggerlo si gela il sangue.
In Palestina, cuore e coscienza del popolo ebraico, la situazione non era molto diversa. Fino alla fine del 1944 non hanno mai trovato il modo di andare ad avvertire ed eventualmente ad aiutare le grandi comunità ebraiche che la morte aspettava al varco. Quando quei pochi paracadutisti sono arrivati a Budapest (e dal processo Kastner sappiamo con quale risultato), non restava loro più niente da fare: metà Europa era già priva di ebrei. Perché non è stato prima mandato qualcuno? Certo, sappiamo che c'era la guerra in Palestina. E allora? I giovani membri del Palmach si sarebbero presentati tutti volontari. Fra cento scelti, dieci o cinque sarebbero arrivati a destinazione; avrebbero organizzato la resistenza, evasioni, salvataggi
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22/05/2011 20:29

Le conseguenze del silenzio sono evidenti per lui, ebreo deportato fra gli ultimi, dalla Transilvania.



Uno degli episodi più sconvolgenti della guerra riguarda gli ebrei di Ungheria e in particolar modo quelli della Transilvania. La loro deportazione in massa ebbe luogo fra il maggio e il giugno 1944, qualche giorno prima dello sbarco in Normandia. Alla stazione di Auschwitz non sospettavano ancora la sorte che li attendeva. Lo stesso nome sinistro di Auschwitz era loro sconosciuto. Non sapevano cosa significasse per loro. Se lo avessero saputo, quanti avrebbero potuto essere salvati? Non tutti, senza dubbio, ma la maggior parte sì. L'Armata Rossa si trovava a una distanza di circa quaranta chilometri: di notte si sentiva chiaramente il rimbombo dei cannoni. C'erano delle montagne nei dintorni, dove ci si poteva facilmente rifugiare, aspettarvi qualche giorno; l'arrivo dei liberatori non era che una questione di ore. Ma a quei pii ebrei di Transilvania veniva detto che non avevano nulla da temere, che li trasferivano da qualche parte all'interno del paese. E loro ci hanno creduto. Ripeto: questo è accaduto nella primavera dell'anno di grazia 1944, quando ogni bambino di Brooklyn, di Whitechapel e di Tel Aviv già sapeva che Treblinka e Birkenau erano tutt'altro che piccole stazioni di provincia.
Tuttavia, a Joel Brand, che sollecitava un colloquio urgente per informarlo della sua missione doppiamente tragica, il professor Chaim Weizmann fa rispondere che è troppo occupato e rimanda il colloquio di qualche settimana. Eppure Brand aveva precisato in una lettera che ogni ora era importante, che ogni giorno che passava significava diecimila ebrei in meno. Come Brand sia riuscito a non perdere la ragione resterà per me uno degli enigmi della volontà capaci di sopravvivere alla propria dannazione.
L'atteggiamento di Weizmann non faceva che mettere in evidenza lo stato d'animo diffuso fra gli ebrei in Palestina, e da qui la sua gravità. La gente si comportava come se ciò che accadeva “lassù” non la riguardasse. Con un distacco stupefacente, incomprensibile. Inconsciamente dicevano a se stessi: di chi è la colpa? Avrebbero potuto venir qui da noi; avrebbero dovuto seguire il nostro esempio; hanno mancato di coraggio, d'idealismo: tanto peggio per loro.

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22/05/2011 20:29

Tale silenzio comprende anche la Palestina di allora, luogo di rifugio di tanti ebrei già scappati.



Il giovane poeta israeliano Haim Gouri ebbe un giorno la curiosità di esaminare negli archivi dei giornali di Tel Aviv le annate 1943-44. Fu un'esperienza sconvolgente. “Non capisco”, mi disse. “Se tu sapessi quali erano i problemi che allora ci occupavano, mentre in Europa... Elezioni comunali a Hedera o altrove: titoli in prima pagina. In un angolo sperduto della pagina un piccolo trafiletto di poche righe: I tedeschi hanno cominciato a sterminare gli ebrei del ghetto di Lublino, o di Lodz...”.
Non è colpa del popolo, ma dei suoi dirigenti. Non erano all'altezza. Davano prova di una sorprendente mancanza d'iniziativa, di maturità politica e di coraggio. Nahum Goldmann lo ha confessato recentemente, in occasione di una riunione a Ginevra del comitato esecutivo del Congresso mondiale ebraico. Le grandi organizzazioni ebraiche erano incapaci di superare le loro piccole questioni interne per realizzare un'azione comune. Per tutto il tempo che esistè, il comitato di emergenza per salvare il popolo ebraico fu boicottato da tutti i leader ebrei americani. Anche in questo caso avevano le loro ragioni, i loro motivi: niente alleanze con personaggi non ortodossi come Ben Hecht o Peter Bergson, niente collaborazione con il tale o il talaltro. Ma allora avrebbero potuto creare il loro proprio comitato di salvataggio in seno al quale tutti i partiti, tutte le organizzazioni sarebbero state rappresentate. Questo non è stato fatto.
E' per questo che non possiamo fare a meno di esprimere questa riflessione: per collocare il processo al suo giusto livello morale, quello della verità assoluta, il procuratore generale Gideon Hausner (o lo stesso primo ministro David Ben Gurion in qualità di testimone) avrebbe dovuto abbassare la testa e gridare a voce alta in modo da farsi udire da tre generazioni: “Prima di giudicare gli altri dobbiamo riconoscere i nostri errori, le nostre debolezze. Non abbiamo tentato l'impossibile, non abbiamo neanche esaurito il possibile”.

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22/05/2011 20:29

Desolante si impone la conclusione:



I grandi spiriti si erano addormentati, le sensibilità più fini si attenuavano, voci potenti tacevano. L'apatia generale aveva creato un clima propizio ai criminali che potevano agire con calma, efficacemente, senza fastidi né falsa vergogna.



Paradossalmente gli unici a provare sensi di colpa sono i reduci sopravvissuti:



Per una strana ironia del destino, soltanto i reduci, i sopravvissuti erano, e sono, coscienti della loro parte di responsabilità. Non si tratta di un'idea giansenista e il peccato originale li lascia freddi. L'idea che li domina è più concreta, più straziante. Fa parte del loro essere.
Perché non vi siete rivoltati? Perché non avete resistito? Eravate diecimila contro dieci, contro uno: perché vi siete lasciati condurre al mattatoio come bestiame?
... vivo, e quindi sono colpevole; se sono ancora qui è perché un amico, un compagno, uno sconosciuto è morto al mio posto. In un mondo chiuso, questa certezza possiede una potenza distruttrice dagli effetti facilmente intuibili. Se vivere vuol dire accettare o generare l'ingiustizia, morire diverrà ben presto una promessa, una liberazione.

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22/05/2011 20:29

Il sistema del Lebensschein nei ghetti e della Selektion nei campi non mirava soltanto a decimare periodicamente la popolazione, ma anche a far si che ogni prigioniero dicesse a se stesso: quello avrei potuto essere io; sono la causa, forse la condizione della morte altrui.
Così il Lebensschein rappresentava una tortura morale, una prigione senza uscita. Una delle testimonianze più commoventi che abbia sentito al processo Eichmann fu quella di un uomo che era stato medico a Vilna. Sposato da poco, era riuscito a procurarsi un certificato di vita; lavorava in una fabbrica tedesca. In grado di salvare un parente stretto della sua famiglia, andò a trovare sua madre per chiederle consiglio: “Che fare, chi proteggere? Te o mia moglie?”. Obbligato a una scelta, l'uomo, divenuto strumento tangibile del destino, vivrà ormai in un cerchio infernale, soffocante; non potrà più pensare a se stesso senza rabbia, senza disgusto...
E' il numero che conta, la quota. Così, il prigioniero risparmiato, soprattutto in periodo di selezioni, non poteva reprimere uno spontaneo sentimento di gioia. Passato un momento, una settimana, un'eternità, questa gioia piena di ansia e di paura si trasforma in senso di colpa. Il sentimento di libertà, di essere stato risparmiato, equivale a confessare: sono contento che un altro se ne sia andato al mio posto. E' per non pensare a questo che i prigionieri, aiutati da un meccanismo di difesa, riuscivano a dimenticare così presto i loro compagni, i loro genitori selezionati. Per evitare gli sguardi, pieni di biasimo, che gli scomparsi avevano loro lanciato un'ultima volta...
Citiamo ancora un caso, anch'esso presentato in tribunale a Gerusalemme: quella donna che, nuda e ferita, riuscì a fuggire dalla fossa comune dove gli ebrei della sua città erano stati massacrati, e che dopo poco vi ritornò per unirsi a quella fantasmagorica comunità di cadaveri. Salvatasi miracolosamente, rifiutava la vita divenuta ai suoi occhi impura.
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22/05/2011 20:30

Jorge Semprun/Elie Wiesel
Tacere è impossibile. Dialogo sull'Olocausto
Guanda, Parma, 1995



Il testo è la trascrizione di un dialogo fra Elie Wiesel e Jorge Semprun, trasmesso dalla televisione francese, nel 1995, in occasione del cinquantesimo anniversario della liberazione dei campi di concentramento.
Il dialogo sottolinea come la preoccupazione per la salvezza degli ebrei non fosse una priorità, nel contesto della guerra:



Elie Wiesel: Bisogna collocare tutto nel presente, nel reale. Tu parli della Liberazione. Io anni fa a Mosca ho fatto una domanda al generale Petrenko. E' stato lui a liberare Auschwitz. Eravamo là, appunto, tutt'e due, e abbiamo confrontato le nostre impressioni su quell'ultima notte. Perché, vedi, noi all'interno del campo ci preparavamo ad uscirne, mentre lui predisponeva le sue truppe per liberarlo.
Bè, io gli ho chiesto: Se aveste sferrato un attacco solo due giorni prima, avreste salvato centomila tra uomini e donne. Ma non lo avete fatto. Mi dica perché. Chi ve lo impediva? Lui ha cominciato a parlare, a tirare in ballo questo e quello... La faccenda non è affatto chiara. Lo stesso si può dire degli Alleati. Buchenwald poteva essere liberato prima. Sono incappati in Buchenwald per caso. Insomma, non era una priorità.
Jorge Semprun: Non era una priorità strategica. Però gli Alleati, gli Occidentali, avrebbero potuto diffondere con ben altro impegno le notizie che avevano sullo sterminio, soprattutto a partire dal 1943. Potevano esercitare una minaccia diretta...

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22/05/2011 20:30

.W.: E bombardare la linea ferroviaria che portava ad Auschwitz. Ma del resto questo vale anche per i russi. Oltretutto erano più vicini.
J.S.: In effetti avrebbero potuto intervenire. Dare la lista dei nomi che era nelle loro mani. Perché la Resistenza ebraica l'aveva già trasmessa. Mettere decine e decine di tedeschi di fronte alle loro responsabilità. Ecco chi sono i nazisti. Ecco cosa vi spetta. Annunciare Norimberga in questo modo. Non è stato fatto, invece. Non è stato fatto per le stesse ragioni per le quali il silenzio è durato anche dopo.
E.W.: Io sono stato a Babi-Yar. Nel 1956 non c'era niente. Poi hanno costruito un monumento. Eppure a Babi-Yar in dieci giorni sono stati sterminati 60.000, forse 80.000 ebrei, tra Rosh ha-Shanah e Kippur. Non una sola iscrizione in ebraico. Non c'era un solo ebreo, là, tra i comunisti, tra i russi. Era come ad Auschwitz.
J.S.: Come ad Auschwitz, sì. Era un campo dove morivano gli antifascisti. Di colpo viene cancellate, annullata, la verità profonda di Auschwitz, che è il campo di sterminio della soluzione finale.
E.W.: Gli ebrei sono stati uccisi una seconda volta.
J.S.: Esatto, una seconda volta. Nel caso di Babi-Yar, si è dovuto aspettare la poesia di Evtusenko e un certo numero di disgeli.
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22/05/2011 20:30

Il problema di Dio emerge, il mistero del suo silenzio, a partire da due prospettive simili e insieme profondamente diverse:



E.W.: Comunque per me Dio era l'ancora di salvezza. Non lo so, Jorge, io non capisco, ma Auschwitz e Buchenwald per me sono inconcepibili, con o senza Dio. In effetti, ogni volta mi pongo lo stesso interrogativo: Ma Dio là dentro dov'era? E se c'era cosa faceva? Perché, vedi, io provengo da un ambiente religioso, estremamente religioso. Tu invece hai una formazione politica. Tu lavoravi nella Resistenza. Io non ho fatto niente. Ho lasciato fare. Dio faceva e l'uomo disfaceva: le cose, gli eventi, le creature umane. Per me c'era solo Dio, perché tutto sommato l'uomo ai miei occhi non contava. Contava Dio, Lui soltanto importava. Spettava a Lui dare un senso alla mia vita. Era Dio la motivazione di tutto quello che mi succedeva. E proprio per questo io avvertivo un'assenza, un eclissi: già, ma Dio dove era? E allora è avvenuto che più tardi mi sono rivoltato, ho lottato contro Dio, soprattutto a guerra finita. E' stato quando ho cominciato a occuparmi di filosofia, quando ormai sapevo come formulare gli interrogativi. Ma Dio c'era, Dio esisteva sempre. Perfino al Campo Piccolo. Mi ricordo di Pasqua. Per Pasqua noi non possiamo mangiar pane. Be', io ne ho mangiato, ma avevo dei compagni che neppure dentro il campo ne mangiavano. Ricordo le preghiere. Nel Campo Piccolo, il giorno di Pasqua pregavamo. Io ero come assente. L'11 Aprile, la prima cosa che abbiamo fatto, noi, un gruppetto di compagni del campo piccolo, è stato recitare il Kaddish. E' per i morti il Kaddish. La prima cosa. Si, proprio questa, recitare il Kaddish. Dunque, io mi definivo attraverso Dio. E ancora oggi, non so...
J.S.: La leggenda della passività ebraica è un'ignominia. C'è quest'aggancio a una resistenza morale, a una identità morale che è molto forte, e che per noi si costruisce in modo diverso. Io appartengo ad una famiglia cattolica. E' vero che sono ateo fin dall'adolescenza; tuttavia è grazie alle discussioni fatte a Buchenwald che sono arrivato a definire il mio rapporto con Dio. A concludere che discuterne l'esistenza è un falso problema, perché fino a quando ci sarà l'uomo ci sarà Dio. Esisterà questo rapporto con la trascendenza. Dunque, non va discussa la questione dell'esistenza, sono altre le questioni da discutere. E' un'acquisizione o una conseguenza di quelle discussioni domenicali a Buchenwald. Paradossalmente, oserei dire che bisogna spingere l'ateismo fino in fondo. E l'ateismo spinto all'estremo riconosce che Dio è un bisogno umano, un desiderio, un fantasma, una necessità. Esisterà fino a quando ci sarà l'uomo.

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22/05/2011 20:30

Emmanuel Lévinas
Dall'esistenza all'esistente
Marietti, Casale Monferrato, 1986



Emmanuel Lévinas, filosofo ebreo originario di Kaunas, in Lituania, non racconta esplicitamente, nelle sue opere filosofiche, la sua esperienza personale dell'Olocausto e quella del suo popolo.
Nell'opera La difficile libertà. Saggi sul giudaismo, così si esprime al riguardo:



La mia biografia è dominata dal presentimento e dal ricordo dell'orrore nazista.



Lévinas accenna quasi con pudore al suo internamento nel campo di Fallinpostel nei pressi di Magdeburgo persecuzione da lui personalmente vissuta ove fu dal 1940 al 1945 come prigioniero di guerra, perché dal 1930 naturalizzato francese, in un campo separato, ma vicino a quello degli ebrei destinati alla morte perché ebrei.

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Sesso: Maschile
22/05/2011 20:31

Dall'esistenza all'esistente è il primo volume pubblicato da Lévinas dopo la guerra. In esso pone le basi del suo pensiero. Il testo nasce durante la detenzione, in cui lo avevano costretto i nazisti.



Tutte queste ricerche, che sono cominciate prima della guerra, sono poi state continuate e, nella maggior parte, redatte durante la prigionia. Ma se ricordiamo lo stalag non è per una garanzia di profondità, e nemmeno per un diritto all'indulgenza, ma per spiegare l'assenza di ogni presa di posizione sulle opere filosofiche che furono pubblicate, con tanto clamore tra il 1940 e il 1945.



Una filosofia che parta dalla dimenticanza dell'esistente, di colui che concretamente esiste, viene invasa dall'anonimato dell'esistere. Non si può partire dall'anonimo il y a ( c'è) o dall'impersonale (come il pleut, piove).



L'il y a, che abbiamo descritto durante la prigionia e che abbiamo presentato in quest'opera all'indomani della Liberazione, ci riporta a una di quelle strane ossessioni dell'infanzia che conserviamo in noi e che riappaiono nell'insonnia quando il silenzio risuona e il vuoto resta pieno.



La conseguenza del primato dell'esistere impersonale sull'esistente è devastante nel pensiero filosofico.
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